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L’arte dello Yoga e il peto vaginale

Ogni uomo ha un punto debole, un tallone d’achille che può far crollare le sue difese come un castello di carte. E anche io non mi sottraggo a questa logica. Dietro la sicumera a tratti spavalda del blogger maledetto, è nascosto un uomo vulnerabile, pronto a cadere in ginocchio privo di favella a fronte di mascarpone e inviti gratis.E questo serve forse a spiegare, soprattutto a me stesso, il motivo per cui accettai quel maledetto giorno di andare con P ad una lezione di Yoga gratuita. Il lettering orientale era invitante “Lezione di prova gratuita su prenotazione! Scopri te stesso con lo Yoga!” e la parola ‘gratuita’ era decisamente più grande delle altre. Così, incapace di opporre resistenza ad una cosa profferta con così tanta veemenza (c’erano 2 punti esclamativi!), presi il telefono e siglai l’accordo per quella sera stessa: io e P saremmo entrati mano nella mano nel magico mondo dello Yoga gratuito.
Arrivammo al Centro M……. con un leggero ritardo, ed entrando nello stanzone preposto. La cosa che notai per prima furono le scarse condizioni igieniche, la piccola palestra era maleodorante e scarsamente illuminata. Dieci, quindici copri immobili erano a terra, in posizioni anormali, su materassi cenciosi. I loro volti erano cerei e sfigurati.
Fummo subito apostrofati dall’insegnante, una donna con pochi capelli, per il nostro ritardo e inviati a sistemarci nei due posti davanti. Mentre avanzavamo alcune mani mi sfiorarono e un sottile lamento mi giunse più volte all’orecchio.
Mi sdraiai per terra e l’insegnante sussurrò sottovoce di assumere la posizione del Farhasaana. La gente iniziò ad intrecciarsi come ceste di vimini umane e sinistri scricchiolii di articolazioni provenivano un po’ da ognuno. Mi voltai verso P, era bianca in volto. L’insegnante si alzò e venne verso di me, mi sussurrò alcune frasi con la parola ‘armonia’ e preso il mio braccio iniziò a piegarlo in maniera innaturale. Provai a spiegarle che mi ero operato alla spalla, ma con uno schiocco tutte le mie cartilagini saltarono e mi ritrovai il braccio formicolante e caldo pendere dal corpo, privo di sensazioni.
L’insegnante mi sussurrò alcune frasi con la parola ‘equilibrio’ e tornò al suo posto. Poi disse che potevamo ritornare in posizione normale. Con qualche gemito la gente si ricompose, tutti tranne uno. Un vecchio signore iniziò a frignare, squadernato come una vecchia rivista. L’insegnante si alzò, pronunciò alcune frasi con la parola ‘proporzione’ e schiacciò un grosso pulsante rosso sulla parete. Da una porta entrarono due uomini di colore, vestiti con trasparenze azzardate, che imbracciato il cartoccio umano lo portarono fuori.
Sua moglie si morse il labbro per non piangere.
L’insegnante poi si sedette nuovamente sul suo logoro tappeto e invitò la platea con un filo di voce ad assumere la posizione del Rohnadasana, quindi aggiunse che, vista la disposizione della figura, si sarebbero potuti verificare nelle donne dei piccoli peti vaginali. Invitò tutti a non avere timore di ciò, rassicurando sulla normalità del fenomeno e augurandosi che questo non avrebbe compromesso la distensione yogica.
Presi il mio braccio privo di vita e lo portai dietro la schiena, come un vecchio sacco e mentre mi accingevo ad iniziare la figura, iniziai a sentire un sommesso scoppiettio: prit prot prot. Decine di peti vaginali, come fuochi fatui organici, si alzavano al cielo.
Accennai un sorriso, che morì subito: l’insegnante, accortasi della mia reazione, stava venendo verso di me. Pronunciò alcune frasi con ‘concordanza’ e mi chiese se trovavo così divertenti i peti vaginali. Abbassai gli occhi e non risposi.
La donna tornò al suo giaciglio e schiacciò il pulsante rosso. Gli eunuchi muscolosi entrarono e mi presero. La loro baldanza sotto le trasparenze non faceva presagire nulla di buono.
Urlai all’insegnante alcune frasi con la parola ‘puttana’ e improvvisamente si fece buio. Mi svegliai qualche giorno più tardi, con la parola Muhammad tatuata sul braccio.

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rest in pigeon

La vita è veramente fottuta a volte.
Ieri ero in vespa e stavo tornando a casa dal lavoro, davanti a me una volvo. Andavamo piano, insomma, 30 all’ora non di più, eravamo in curva. In un minuto secondo una piccola tragedia, un suono sordo, la volvo stava schiacciando un piccione. Ruota posteriore sinistra, ad un metro da me. Uno spiacevole disegno del destino. Il piccione camminava sulla strada, lento. Un momento dopo il piccione era morto. Schiacciato. In quel secondo, un ‘plop’ sommesso. E il suo sguardo. Cazzo, il piccione, mi stava guardando. Il fottuto piccione mi stava guardando, mentre veniva schiacciato. E non era piacevole. Il piccione voleva raggiungere il marciapiede, la ruota lo ha centrato dal collo in giù, la testa no, la testa era già fuori dalla traiettoria della ruota. E il misero mi stava guardando. Un piccione mi guardava mentre moriva. E mentre il suo corpo veniva schiacciato, le sua ossa frantumate dalla ruota di una volvo station wagon, lui stava guardando me. E nel suo sguardo non c’era rabbia, non c’era pentimento. Nel suo sguardo vuoto c’era stupore. Il fottuto piccione era sorpreso dal fatto di stare per morire. Il poveretto mi guardava e sembrava chiedermi come fosse possibile morire in un modo così stupido. E io impotente, in quel minuto secondo mi sono sentito dispiaciuto e privo di risposte. Mentre il suo corpo si appiattiva i suoi occhi erano sui miei e mi diceva ‘possibile debba finire così?’.
Io tacqui.
‘tra breve sarò morto, vero?’
Annuii, e scartai il suo corpo ormai defunto.
Diventai triste, per un po’.

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Bitter Shit Symphony

L’altra sera ero a vedere Mozart a teatro, cioè non proprio Mozart lui, intendo, ma qualcuno che suonava Mozart. C’era un signore con i capelli bianchi e una grossa pancia che agitava le braccia, sudando, e tutti suonavano. Io per contro conducevo una personale lotta contro il sonno: insaccato come un salume nel caldo abbraccio della poltrona tentavo di trattenere il filo di bava che scendeva dalla bocca. Ci provavo, ma niente, lui scendeva e io accompagnato dai violini che il signore sudato invitava a suonare, sentivo i miei pensieri staccarsi e cominciare a danzare, insieme alle pinguitudini del direttore d’orchestra, e danzare, ancora, mentre il filo scendeva dalla bocca e io scivolavo sempre più giù, e giù ancora e la mano della mia mente apriva lo schedario dei ricordi per pescare qualche episodio alla voce ‘violino’ che mi potesse guidare tra le braccia di Morfeo, dolcemente.
La scheda che fu estratta riportava i tag VIOLINO + MIGNOTTA + MADRE + SQUALLORE.
Così capì al volo l’episodio a cui si riferiva, senza neanche guardare la data.
Avevamo tutti vent’anni ed eravamo stati invitati, io e la mia ganga, ad una festa della quale sapevamo ben poco. Anche perché c’era poco da sapere. La festa era squallida, forse una delle più squallide di sempre, ad eccezione delle mie. La festeggiata compiva 18 anni, ma lasciate da parte la fantasia di epiche feste della maggiore età, qui era una merda poco diversa da una festa delle medie. L’unica differenza era che la festeggiata era un cesso, ma non paga di questo, forse pensando che qualcuno se la si sarebbe sifonata quella sera si era vestita da migna: stivale alto minigonna e poco altro. Imbarazzante. Io e la mia ganga non la conoscevamo quasi, quindi ovviamente oltre a non portare il regalo, nessuno di noi la degnava di parola, come del resto sembrava facessero tutti gli invitati. La gente si avventava sui dixie e cercava, vista l’assenza di birra, di distillare alcol dalle piante finte di quella squallida tavernetta. La gente mangiava le schifose torte fatte in casa e cercava canzoni decenti alla radio (io trovai Bingo dei Catch, che ricordi) ed era più il tempo che passava a fumare fuori dalla taverna, che dentro a interagire con la patetica festeggiata, costantemente in un angolo. La serata era decisamente da buttare e iniziavo a pensare che forse sarebbe stato meglio farle di nascosto un’iniezione letale, perché credetemi tutto questo squallido teatrino avrebbe ammazzato anche un elefante. Ma se pensavo che quello fosse il fondo, beh mi sbagliavo di grosso, era solo il piano -1: ad un certo punto gli incubi peggiori della povera reietta si fecero realtà, quando entrarono la madre e il fratellino di 5 anni vidi sul suo volto eccessivamente truccato la consapevolezza che sarebbe diventata lo zimbello di tutti. Ora la festa, o meglio quell’ammasso di persone annoiate, stava diventando grottesco… non c’era alcol, né cibo decente, solo una patetica festeggiata ignorata, una madre invadente e un ragazzino scassapalle che si aggirava tra le persone rischiando di venire malmenato.
A quel punto decidemmo di andarcene, ma quasi sulla porta fummo insospettiti dall’aria di cospirazione della madre e del fratello che si scambiavano occhiolini. Mi voltai e vidi un violino che fuoriusciva da un astuccio e la madre (gran faccia da cazzo, sia chiaro) non contenta di aver ulteriormente rovinato con la sua petulante presenza la già desolata festa dei 18 anni di sua figlia, decise di spingerla verso il suicidio, invitandola a suonare un pezzo di violino davanti ai suoi esterrefatti amici. La ragazza (non ricordo neanche il nome) arrossì e cercò di rifiutarsi, ma noi, bastardi e sfibrati da quell’insulso compleanno, che intravedevamo nel suicidio un tragico ma liberatorio epilogo, cominciammo a incitarla, falsi come giuda, dicendo che volevamo sentire un pezzo. Così la ragazza iniziò, e fu straziante. Questa, vestita da mignotta, attaccò Bitter Sweet Symphony, con la mano tremante dei timidi, e l’umiliazione fu totale. Dopo poche note la gente cominciò ad uscire, senza far rumore, prendendo le giacche e cercando di non farsi sentire dalla pazza madre che muoveva a ritmo la testa. La ragazza rossa come il sangue, iniziò a piangere sommessamente e le lacrime scendevano in lunghe strisce nere sulle sue guance. Il suono del violino continuava doloroso e tragico e lo sentimmo spegnersi in mezzo ai singhiozzi mentre salivamo in macchina.
Di quella ragazza non si seppe più niente.

Quando mi svegliai, nel teatro, avevo sul petto una chiazza bagnata.

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I met her in a club down in old soho

Si, è un mese che non scrivo, lo so, non c’è bisogno che lo pensiate ogni volta che dirigete il vostro browser su queste pagine. Lo so da me e la cosa mi rode. Non che mi secchi perdere lettori, in quanto ne ho 10 (e quelli ciclicamente torneranno) più altri 10 che vengono qui accompagnati da google verso parole tipo cazzo e figa. Quindi non è quello il punto. È che un po’ mi scoccia lasciare le cose a metà e inoltre, diciamolo, mi fanno troppo gola i 100 dollari degli adsense per chiudere baracca e burattini. Quindi visto che sono appena a 13 la strada sarà molto lunga ancora.
Per il resto, in attesa che qualche cosa accada nella mia testa, godetevi questo tris di grandi supereroi che ho cucinato per voi.

Prima o poi tornerò e sarà come quando i Kinks scrissero Lola quando ormai tutti li davano per tramontati.

Star wars turco

Superman turco

il migliore: Spiderman giapponese

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brokeback – pingui – mountain

Quando Reagan Patino e Todd Cash furono chiamati per lo spot pubblicitario del kinder pinguì, accettarono di buon grado: solo poche battute e un paio di centoni sarebbero finiti facili nelle loro tasche.
Non sapevano certo che questo avrebbe decretato la fine della loro carriera. E della loro vita.

Arrivarono, carichi di fard e speranze, nella location dello spot, un deserto in Nevada, dove li fecero vestire come due coglioni, quindi li piazzarono davanti ad un passaggio a livello, in mezzo al nulla.
   
“Ok guys, leggete il copione, e giriamo. Datevi una mossa che abbiamo solo mezzora.”
“Ma scusi io veram…”
“No, non ti scuso. Ora abbiamo 29 minuti, e non siamo a Hollywood, quindi se non avete altre obiezioni, iniziamo a girare.”
“Ma il metodo Stanislavskij…”
“Cristo santo! Il metodo Stanislavskij? Devi parlare con un pinguino e mi vieni a parlare di metodo Stanislavskij? Io ti do una selva di calci in culo che poi con il pinguino ci parli veramente.”

Reagan e Todd si guardarono, con un nodo alla gola. Gli anni all’Actor Studio, il diploma di recitazione, le particine a Brodway, qui non avevano valore. Quell’uomo orribile stava vanificando tutti i loro studi.
Si presero per mano e strinsero forte.

Improvvisamente arrivò un pinguino, facendoli sobbalzare: AK AKH AK.

Reagan, con la morte nel cuore, ripensando a quella volta che Scorsese gli aveva stretto la mano, deglutì e rispose: AHK AK AK.

Todd in quel momento fu fiero di lui: pensò che anche se aveva un taglio di capelli a forma di glande, era stato superbo, anche senza metodo Stanislavskij.
Poi disse la sua battuta, invitandolo con malizia a prendere qualcosa di fresco, pensando al pitone che si agitava nei suoi pantaloni da cow boy.

Reagan e Todd, uniti da tempo da un sottile e inconscio legame omosessuale, andarono dietro il camion e aprirono i portelloni: 18mila metricubi di kinder pinguì semi-sciolti, impilati come un orrido domino, li stavano osservando.

Reagan allungò la mano, con la fronte perlata di sudore, verso l’osceno mosaico. Doveva prendere quello contrassegnato con la X verde, senza sbagliare.

D’improvviso un lampo attraversò gli occhi di entrambi. Si avvicinarono, stringendosi.

“Todd…”
“Si?”
“Ti ho sempre amato.”
“Anch’io.”

I due si abbracciarono forte, piangendo, mentre Reagan allungava un mano verso il furgone.

Il regista, novello Harvey Keitel, urlò di non farlo, ma Reagan tirò a se un kinder pinguì, quello contrassegnato da un teschio. Era la chiave di volta dell’intera struttura.

Le 78 tonnellate di sburro e cioccolato si rovesciarono su di loro, uccidendoli all’istante, fissando per sempre quell’ultimo, drammatico abbraccio.

Gli uomini della troupe avanzarono silenziosi verso la montagna bianca e marrone e si tolsero il cappello.

In quel momento l’espresso 940 per Carson City frecciò sul binario a 150 km/h.

Si udì solo un flebile AHK AK, coperto dai fischi di avvertimento del locomotore.

Del pinguino non si seppe più nulla.

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